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Il Riflesso

Sono molti i racconti, che hanno a che vedere con il proprio riflesso o più semplicemente con uno specchio. Questo perché esso ha sempre nascosto numerosi simbolismi. Riflettere significa volgere indietro. La tua immagine entra nello specchio e si mostra a te. Ma non siamo capaci di vedere solo la nostra immagine, ovvero la percezione di noi. Noi vediamo e giudichiamo secondo le regole del "bello" e "normale" che la società, la cultura e l'ambiente circostante, ci impongono.

Nel testo Favole di Jean de la Fontaine, più precisamente nel libro VI, vi è  la storia di un cervo che osserva la sua immagine riflessa in una fonte. Egli ammira le sue splendide e rigorose corna e schernisce le sue gambe sottili e lunghe, ma appena si imbatte nel cane del cacciatore, sono le gambe che gli offrono la possibilità di correre e fuggire, mentre le sue corna si impigliano negli arbusti ed egli viene catturato. 

Proprio dal racconto capiamo che ciò che ci appare come un difetto in realtà ci rende unici e ciò che elogiamo è ciò che guardiamo con gli occhi di chi ci guarda. Interiorizziamo l'occhio dell'osservatore tendendo ad apprezzare ciò che piace a chi ci è accanto.

Per esempio, per anni, sono stata etichettata come una ragazzina stupida per il colore dei miei capelli. Negli anni 90, anni in cui nelle commedie televisive vi erano spesso una o più ragazze bionde e frivole, i ragazzini schernivano le ragazze dai chiari capelli associandole a bambole superficiali e degnandole di uno sguardo solo se simili a quelle che ammiravano alla TV.  

Non essendo simile a quelle attrici bellissime che recitavano il ruolo di donna frivola e inconsistente, ho odiato per anni quel colore sulla mia testa e quel corpo così diverso. Non volevo che ci si rivolgesse a me come ad una persona stupida o superficiale, non mi piaceva esser schernita, in particolar modo dai maschietti, ma era proprio così che loro mi vedevano. E in poco tempo ho iniziato a guardare il mio aspetto con i loro occhi. 

Poche volte ho ricevuto qualche riconoscimento del mio intelletto, delle mie qualità, del mio ingegno e della mia più completa personalità. Tutti incontri casuali e fulminei. Persone estranee capaci di vedere ciò che io non riuscivo a comunicare, capaci di percepirmi come altro, come qualcosa di diverso dal personaggio inconsistente, goffo e frivolo che avevo iniziato a recitare. 

In The Lion King, capolavoro Disney, Simba incontra Rafiki. In poche parole, il saggio babbuino gli mostra alcune verità. Per esempio come dai propri errori si possa apprendere,  che è importante sapere da dove si viene per decidere il proprio cammino futuro, ma soprattutto Simba apprende l'importanza di  riconoscere se stessi, ed accettarsi con le proprie insicurezze e le proprie domande.

Noi siamo molto più di ciò che il nostro ambiente ci mostra. 

Tu, lettore, sei molto di più delle etichette che ti hanno affibbiato. E non lasciare che quelle etichette dicano chi sei tu!

Il riflesso allo specchio, mostra l'apparenza, il nostro corpo, pieno di quei difetti che giudichiamo, come il cervo alla fonte. Dovremmo invece apprezzare quei difetti perché ci rendono unici, ma soprattutto dovremmo andare oltre l'apparenza e guardare dentro noi, attraverso gli occhi si può constatare chi siamo. 

Con calma, senza fretta, ritagliati un po' di tempo per un piccolo esercizio. Guardati allo specchio, sorridi a te stesso, perchè sei bell*, perchè sei unic*, perchè sei tu

Domandati chi c'è dentro di te. Sei proprio tu, sia dentro sia fuori, o senti ci sia qualcuno che sta provando ad uscire? 

E se c'è una voce che prova a farsi sentire, tu ascoltala, falla uscire fuori, dalle una possibilità. 

Quella voce, quella forza interiore, è il vero te che, stanco di sentirsi abbattere e di restare in silenzio, bussa alle porte della tua anima. 

Apri! Sii capace di dirgli si, sii capace di conoscerlo e riconoscerlo in te e vivi, al meglio delle tue potenzialità.

FG, 2021

Fonti:

De La Fontaine J., Favole, Newton Compton ed, Roma 1994, libro VI

Frederickson, B. L., & Roberts, T. A., Objectification Theory: Toward understanding woman’s lived experience and mental health risks. Psychology of Women Quarterly, 21,173-206 (1997)

Pacilli, M., G., Solo per i tuoi occhi… L’oggettivazione sociale in un’ottica psicosociale, Mind Italia, 1, 19-25 (2012)

Non c’è nulla di male ad essere arrabbiati.

Cos’è la rabbia?

È un’emozione. Una delle tante emozioni che sperimentiamo nel corso della vita. Una delle emozioni primarie studiate da Ekman e riconosciute universalmente.

Nel 1969, infatti, Paul Ekman mostrò alcune immagini di volti ai soggetti partecipanti a un suo esperimento. Tali volti esprimevano una delle emozioni primarie: gioia, tristezza, disgusto, paura, sorpresa e rabbia. A queste poi con il tempo se ne aggiunsero altre che però non sono proprio emozioni ma famiglie di stati emotivi, come ad esempio il divertimento, l’eccitazione o il sollievo. Tutte queste, comunque, dovrebbero essere considerate allo stesso modo importanti poiché sono alla base della nostra esistenza. Grazie ad esse il nostro organismo affronta situazioni ricorrenti quali ad esempio il pericolo.

Ma chissà perché, invece, alcune emozioni sono ben apprezzate ed altre disprezzate.

Il film di animazione Inside out, per esempio, ci insegna proprio a riconoscere l’importanza di tutte le emozioni. All’inizio del film Gioia, vuol sempre comandare, ma ci sono alcuni momenti della vita in cui abbiamo bisogno di sperimentare nuove emozioni, come la tristezza o la rabbia.

La rabbia è un’emozione. Attraverso i cartoni animati, è spesso associata al colore rosso, in inside out addirittura è un omino rosso con le sopracciglia oblique e il fuoco che esce dalla testa, in Oceania, la bella isola di te fiti perde il cuore e si tramuta in una terra bruciata dal fuoco. D’altronde quando siamo arrabbiati sentiamo più caldo del solito, quasi abbiamo la sensazione che la testa vada a fuoco. Inoltre abbiamo anche più forza ed energia e potremmo dire o fare cose di cui in seguito ci potremmo pentire. Ciò nonostante non è giusto che ci si neghi la possibilità di sperimentare tale emozione.

Ai bambini spesso si insegna a reprimere la rabbia e a non accoglierla. Il bambino allora, che sentirà dentro di sé quel fuoco acceso, rischierà di sentirsi diverso e ciò peggiorerà la situazione e la comunicazione con l’adulto. I bambini, infatti, tendono spesso a comunicare con gli adulti proprio attraverso le emozioni e chiedere loro di reprimerle è come mostrare di essere disinteressati. L’adulto è troppo affaccendato nel suo lavoro per entrare in contatto con il piccolo e, sarà per questo motivo, presto allontanato dalla vita emotiva del bambino e non riuscirà a comprendere i motivi della sua rabbia o della sua tristezza. 

Possiamo leggere ne Il piccolo principe  “Tutti i grandi sono stati bambini ma pochi se ne ricordano”

Cari adulti, tornate bambini solo per un momento. Se solo ricordaste tutte le ragioni che vi spingevano ad essere tristi o arrabbiati, se solo ricordaste quanto era difficile comunicare con i vostri genitori e se solo ricordaste quanta sofferenza avete sperimentato notando nell’adulto il disinteresse per le vostre emozioni, scommetto che sareste molto più attenti ai vostri piccoli.

La rabbia è un’emozione, va accolta al pari di tutte le altre. È bello vedere i bambini felici, no? Be pensate quanto possa essere bello vederli capaci di regolare le proprie emozioni, non li vedremmo solo felici, li vedremmo veri, reali, capaci di esprimere se stessi e di comunicare il proprio stato d’animo.

Purtroppo, troppo spesso, capitano in famiglia le discussioni tra adulti e quando un bambino ascolta e si spaventa sarebbe meglio interrompere la discussione e spiegare che tutto ciò è normale, che gli adulti spesso litigano, come anche lui con i suoi amichetti, e che è un’emozione, la rabbia, da accogliere come tutte le altre. Talvolta, invece, è più semplice negare la propria rabbia, lasciando che il bambino ne abbia paura quando, non conoscendola, si ritroverà a sperimentarla. 

Sapendo che ogni adulto è stato bambino e che ricorderà le proprie emozioni esperite, ricorderà di certo che tipo di adulto avrebbe desiderato divenire. E allora come potrà risolvere la situazione? Riconoscendo un’emozione ed imparando a controllarla. Comunicando al bambino che le emozioni esistono, che ci rendono ciò che siamo e che bisogna solo imparare a regolarle.

La rabbia c’è, è in noi. Non è altro che un’emozione, come la gioia. Reprimerla serve solo ad ampliare la nube nera ad altezza dello stomaco, quella nube che presto si tramuterà in bomba e che poi scoppierà, in qualche modo uscirà, attraverso la voce, attraverso la scrittura, attraverso la forza, attraverso gli affanni, attraverso la malattia. Uscirà e regolerà la nostra vita sopprimendo tutte le altre emozioni accolte.

Non dobbiamo permettere che questo accada. D’altronde è la rabbia che ci aiuta ad essere veri, sinceri, onesti; che ci dà la forza di combattere per i nostri sogni; è la rabbia che, in accordo con le altre emozioni, ci rende ogni giorno più saggi, la stessa rabbia che per paura reprimiamo. Riconoscerla potrebbe essere un valido modo di vivere meglio.

Cari genitori, educatori, accettate la rabbia repressa, accoglietela ed aiutate i bambini a riconoscere la propria. Anche loro hanno motivi validi per essere arrabbiati, pensate a quando voi eravate piccoli, eravate sempre felici? Non vi turbava nulla? Non credo.

Per quanto un genitore possa essere, oggi, dolce ed accogliente, sarà stato, ieri, un bambino arrabbiato. Non perseguite lo stesso errore, lasciate che i piccoli conoscano ed accettino le proprie emozioni.

 

Bibliografia:

Bruner J., La fabbrica delle storie, Laterza, 2006

Crepet P., Non siamo capaci di ascoltarli, Einaudi, 2001

Ekman P., Giù la maschera. Come riconoscere le emozioni dall’espressione del viso, Giunti, 2009

Gottman J., Intelligenza emotiva per un figlio, Bur parenting 2019




Non c’è nulla di male ad essere tristi.

Cos’è la tristezza?

È un’emozione.

Una delle emozioni primarie studiate da Ekman[1] e riconosciute universalmente.

Un’emozione è provocata da una situazione specifica; da questa scaturisce un comportamento durante il quale si avviano alcuni cambiamenti fisiologici.

In questo caso, alla tristezza è associato solitamente il pianto.

Quando siamo tristi? Quando proviamo l’emozione della tristezza?

In molteplici situazioni, ma in particolar modo quando sperimentiamo e viviamo un evento traumatico, quale può essere un dolore fisico o anche un lutto.

Il bambino è triste quando per esempio, un giocattolo si rompe, quando cade a terra sbucciandosi un ginocchio o quando non riesce a comprendere uno strillo del genitore.

Ci sono quei momenti, poi in cui semplicemente sentiamo il «groppo in gola», una nube nera a livello dello stomaco che blocca il respiro, un peso che non va via in nessun modo e che ci rende fragili e vulnerabili.

A quel punto la cosa migliore da fare sarebbe…

PIANGERE!

 

La tristezza, infatti, ci segnala qualcosa che non va, e ci sollecita, attraverso il pianto, ad un cambiamento.

Il pianto:

 

Ma quante cose positive!

Ma come mai allora ci sentiamo dire spesso che non si deve piangere?

Quante volte abbiamo sentito le seguenti frasi?

•       Cosa sono quelle, lacrime?

•       È inutile piangere, non ti ridarà ciò che hai perso.

•       Non voglio vedere quei lacrimoni sul tuo viso sempre sorridente.

•       Sei un frignone!

•       Lacrime di coccodrillo!

Perché abbiamo così tanta paura di piangere?

Siamo così abituati a reprimere il nostro desiderio di liberare un’emozione che ci rifiutiamo di piangere.

Eppure i bambini nascono piangendo, loro da subito comunicano attraverso le emozioni.

Purtroppo però crescono emulando l’adulto e imparano a reprimerle.

 

Cosa succederebbe se insegnassimo loro a ad accettare le emozioni, a mostrarle, a riconoscerle?

Cosa accadrebbe se accettassimo la tristezza per quello che è e mostrassimo la nostra vulnerabilità?

 

Il pianto non è altro che un mezzo per esprimere un’emozione.

La tristezza è un’emozione che evidenzia la nostra fragilità, il nostro lato umano.

Ostinandoci a non piangere e a reprimere la tristezza, non impariamo mai a gestire un’emozione.

E non possiamo così sperimentare il senso di libertà e leggerezza da quell’opprimente «groppo in gola» che sembra evaporare successivamente ad un lungo pianto benefico.

 

Il film di animazione Inside out, ci insegna proprio a riconoscere l’importanza di tutte le emozioni. All’inizio del film Gioia, vuol sempre comandare, ma ci sono alcuni momenti della vita in cui abbiamo bisogno di sperimentare nuove emozioni, come la tristezza. Ad un tratto, quando Gioia e Tristezza chiedono indicazioni a Bing Bong, l'amico immaginario, l'elefante rosa è molto triste, e mentre Gioia tenta di rallegrarlo, Tristezza lo ascolta, gli dà la possibilità di piangere e dopo poco, libero da quel peso angosciante, l'elefantino si sente meglio ed aiuta le due emozioni a ritrovare la strada.

https://youtu.be/XlNwrB4FIM0 

Non si può essere sempre felici. Ci sono alcuni momenti in cui non si può proprio mostrare gioia, perché, le avversità della vita ci pongono davanti ad ostacoli talvolta insormontabili e davanti agli alti monti ci sentiamo come formiche e non è possibile celare la paura, la frustrazione e la tristezza.

Reprimere un’emozione significa tenere dentro ciò che ci infastidisce, ciò che ci fa star male e a  un certo punto, tutto il nero che abbiamo ospitato nel nostro corpo verrà fuori, sotto forma di gastrite, di dolori al ventre e allo stomaco e non ci sarà medicina o diagnosi medica che terrà.

Quando sentiamo il bisogno di piangere dobbiamo solo PIANGERE!

D’altronde piangere fa bene talvolta, libera, rilassa e stanca.

Provate a piangere prima di andare a dormire, il giorno dopo vi sentirete riposati e pieni di energia.

È importante quindi imparare ad accogliere le emozioni ed insegnare ai più piccoli ad accettarle, siano essi femmine o maschi. È virile piangere perché è virile accettare l’emozione ed accoglierla.

Cari genitori, educatori, accettate la tristezza e piangete ogni volta che desiderate, accogliete le emozioni e aiutate i bambini a riconoscerle. Anche loro hanno motivi validi per essere tristi. Pensate a quando voi eravate piccoli, eravate sempre felici? Non vi turbava nulla? Non credo, per quanto possiate mostrarvi sempre felici, dentro sentite una profonda tristezza. Ed è normale, è giusto ed è anche sano sentirsi tristi talvolta.

Accettate la vostra tristezza, accettate voi stessi per ciò che siete e i più piccoli per ciò che sono. 

Perché le emozioni possano renderci più accoglienti e anche più umani.

FG

 

Bibliografia:

Ekman P., Giù la maschera. Come riconoscere le emozioni dall’espressione del viso, Giunti, 2009

Gottman J., Intelligenza emotiva per un figlio, Bur parenting 2019

Bruner J., la fabbrica delle storie, Laterza, 2006

Crepet P., Non siamo capaci di ascoltarli, Einaudi, 2001


[1] l’esperimento di Ekman è descritto nell’articolo sulla Rabbia

Fobie vecchie e nuove: conoscere per riconoscerle 

La fobia è una manifestazione psicopatologica i cui sintomi manifesti sono Paura e Ansia. La paura è un sentimento normale che ci protegge da una situazione reale di pericolo. Nella fobia la paura è irrazionale e generata solo dal pensiero della situazione. L’ansia invece è la preoccupazione di una minaccia futura espressa da una sensazione di angoscia e da elementi psicosomatici, per esempio il cuore batte più forte, la respirazione aumenta il suo ritmo, la pelle impallidisce. Il DSM-5 definisce la fobia come una paura o ansia marcata verso un oggetto o situazioni specifiche. L’individuo fobico quindi prova una paura persistente e sproporzionata non solo quando è presente l’oggetto che ne causa il sintomo, ma anche quando percepisce l’idea di dover affrontare l’ostacolo.  In questo caso si parla anche di ansia anticipatoria, poiché il soggetto non è realmente davanti al pericolo.

Riconoscere che la propria paura è eccessiva permetterà in terapia di lavorare sulla regolazione emotiva. Ciò nonostante, la fobia può ostacolare lo stile di vita limitando abilità sociali o lavorative.  Il sintomo principale è l'irrefrenabile desiderio di evitare l'oggetto o il luogo che incute timore. Il fobico tende a fuggire da quelle rappresentazioni che creano in lui un senso di angoscia; questo significa che sposta inconsciamente su oggetti esterni, le sue preoccupanti relazioni con elementi interni, rifiutandoli. L'individuo fobico non può sottrarsi volontariamente alla sua paura, sebbene egli si renda conto dell’irrazionalità e delle limitazioni quotidiane.

Le fobie maggiormente diffuse sono: la Claustrofobia legata agli ambienti chiusi e stretti, l’Agorafobia legata agli ambienti aperti e ampi ma caotici, la Glossofobia o paura di parlare in pubblico, l’Aerofobia legata alla paura di volare e l’acrofobia o la paura delle altezze. Conosciamo poi la fobia sociale identificata come paura di agire di fronte agli altri, la paura di sentirsi imbarazzati o umiliati e di ricevere giudizi negativi; e una serie innumerevole di altre fobie legate a situazioni, esposizioni a fenomeni naturali e  fobie degli animali, come per esempio l’Aracnofobia o paura dei ragni e la Brontofobia o paura dei tuoni e dei fulmini..

Oggi, esistono numerose nuove fobie legate alla società, alla percezione della società, alla new generation e al momento storico in cui viviamo. Tra queste è importante conoscere la Nomofobia, legata alla paura di trovarsi in situazioni in cui non si dispone di rete mobile, connessione dati o batteria del cellulare o del computer carica. La Deipnofobia, paura persistente, ingiustificata e anormale di affrontare le conversazioni durante un momento conviviale, legata al bisogno di dover essere sempre brillanti e all’altezza delle situazioni sociali. 

Molto importanti sono ancora la Filofobia o paura di amare, legata a cattive esperienze passate e al timore di soffrire nuovamente a causa del partner. Questa fobia può anche portare a una mancanza di desiderio, sia fisico che sentimentale, e le sue cause potrebbero derivare da una mancanza di affetto nell’età infantile o da un’esposizione prolungata al doppio legame di cui parla Bateson. 

Infine vi è la Cherofobia, o paura di essere felici, che potrebbe derivare da un sentimento di inadeguatezza, di colpa ingiustificata e dal sentimento di non essere mai all’altezza di un evento positivo.  La sua origine è legata ad una serie di traumi legati all’infanzia. Nello specifico ad alcuni attimi felici cui sono susseguiti eventi spiacevoli di cui spesso l'individuo fobico si incolpa e che l correla direttamente al suo stato emotivo. In quest’ottica, la paura della felicità non è da intendere come timore di essere felici, quanto di essere puniti o di andare incontro a una forte delusione appena dopo un evento positivo. Potrebbe essere quindi un comportamento di autodifesa. Quest ultima fobia, legata alla new generation è ben spiegata in una canzone dell’artista Martina Attili[1] la quale spiega come sia difficile raccontarsi agli altri senza essere giudicati o svalutati.

FG

[1] Testo e analisi della canzone in “recensioni”

Bibliografia:

DSM 5

Lancini M., Il ritiro sociale negli adolescenti, Raffaello Cortina Ed. Milano, 2019

Riflettere e/è specchiarsi

Quando osserviamo la nostra immagine riflessa, dovremmo riconoscerci. Invece ciò che vediamo è solo la percezione apparente di ciò che siamo. Vediamo ciò che l'ambiente vede in noi. 

Noi siamo altro. Dentro di noi c'è un mondo, molto spesso, per paura inesplorato, mondo che improvvisamente riemerge quando ci accorgiamo che ci manca qualcosa. 

La prima domanda che ci poniamo allora è: "cosa c'è di sbagliato in me?" o ancora "cosa non va in me!" Dovremmo avere a quel punto la forza di risponderci "Nulla non va in me, nulla è sbagliato in me, anzi c'è qualcosa in me che vuol venire fuori in aiuto!"

A quel punto guardiamo il nostro riflesso con la speranza di vedere chi è che, nascosto in noi, vuol fare capolino. E' difficile guardarsi negli occhi e ammettere, in primis a noi stessi, che qualcosa va cambiando. Molto spesso è un qualcosa di positivo, qualcosa che non ne può più di esser nascosto, qualcosa che si attacca ai nostri pensieri, ai nostri sogni, al nostro quotidiano, ma qualcosa che non conosciamo e pertanto ci spaventa. Solo conoscendo noi stessi, riconoscendoci allo specchio per ciò che siamo  saremo pronti a conoscere il mondo, l'altro, l'estraneo. Solo amando noi stessi, saremo in grado di amare l'altro.

Bibliografia:

Il mito di Narciso

Schwarts R., no bad parts (IFS), paperback, 2021

FG